Scrivo una lettera (ed è meglio di una videochiamata)

Alla fine di Agosto ho accompagnato mia figlia all’aeroporto di Malpensa. Quello stesso aeroporto che, per inciso, dovrebbe chiamarsi Malpensa ma che nella mia testa suona sempre come “Malpensata”, ché di scelte malpensate nella vita ne ho fatte diverse e questa sembrava candidarsi ad entrare nella collezione.

Nel caso specifico non si trattava di una vacanza mordi e fuggi, di quelle che organizzi su Booking alle due di notte convinto di aver trovato l’affare del secolo, né tantomeno di un viaggio di lavoro dove fingi di essere impegnato in meeting importantissimi quando in realtà stai cercando di capire come funziona la macchinetta del caffè dell’hotel. No, niente di tutto questo.

In questo caso, il viaggio in aeroporto non riguardava me.

Con la consueta determinazione che la contraddistingue sin da quando è stata in grado di reggere un biberon con le sue manine, cosa che peraltro faceva con una presa degna di un lottatore di Sumo, mia figlia ha deciso che sarebbe andata a studiare all’estero per un anno intero. Un anno. Trecentosessantacinque giorni. Cinquantadue settimane. Dodicimila ore circa. Ma chi diavolo conta?

In realtà la decisione era già stata presa più o meno un anno prima, ma io, in qualità di tipico padre italiano medio, cresciuto a pane e sensi di colpa, ho sempre rimosso il pensiero della separazione con quella particolare abilità che noi maschi italiani abbiamo di far finta che i problemi non esistano se non li guardiamo direttamente negli occhi. Un po’ come con le bollette che lasci nel cassetto convinto che se non le apri non devi pagarle.

Avevo passato dodici mesi interi a comportarmi come se quella data non esistesse. Ogni volta che qualcuno me ne parlava cambiavo discorso con l’eleganza di un elefante in una cristalleria. “Ah sì, l’anno all’estero! Figurati se parte davvero!” dicevo, convinto che in qualche modo l’universo avrebbe cospirato per farla cambiare idea. Spoiler: l’universo se ne frega altamente dei tuoi desideri.

Nel momento esatto in cui le ho visto varcare la soglia dei controlli di sicurezza, quel maledetto punto di non ritorno dove non puoi più seguirla nemmeno se volessi, sono stato travolto da un’ondata di consapevolezza che ha avuto tutta la delicatezza di un treno merci in corsa. Per un anno intero non avrei più ricevuto nessun abbraccio di quelli che lei ti dà quando rientra a casa e che durano esattamente tre secondi e mezzo ma che ti sistemano l’anima meglio di qualsiasi terapia. Non avrei più avuto l’occasione di criticare l’universo davanti ad una pizza del sabato sera, quella tradizione sacra e inviolabile dove ci si lamenta di tutto, dall’andamento del mondo alla qualità dei pomodori, passando per le scelte discutibili dei registi contemporanei. Non avrei più saccheggiato la libreria come, per tradizione consolidata, avveniva ogni sabato mattina quando lei sceglieva tre libri e io facevo finta di lamentarmi del conto ma in realtà ero felicissimo.

Accidenti! Per un anno intero ci sarebbero state solo telefonate, o videochiamate. Quelle cose digitali dove ti vedi in un riquadro e ti accorgi che dovresti davvero pettinarti meglio e che la webcam del computer ha la straordinaria capacità di far sembrare chiunque dieci anni più vecchio e venti chili più pesante.

E così in effetti è stato. La realtà, quella crudele signora che non rispetta le tue fantasie, si è presentata puntuale all’appuntamento.

Credo che il giorno della sua partenza fosse un venerdì, quel giorno della settimana che di solito accogli con gioia perché significa che sei sopravvissuto a un’altra settimana lavorativa, ma che in quel caso specifico aveva tutta l’allegria di un funerale sotto la pioggia. Ho passato il fine settimana con una latente tristezza che faceva il paio con l’orgoglio per il coraggio che lei ha dimostrato. Una specie di cocktail emotivo dove mescoli tre parti di malinconia, due parti di ammirazione e una spruzzata di “ma che cavolo mi è preso di lasciarla andare?”

Sì perché, e qui lo ammetto con la sincerità di chi non ha più nulla da perdere, io alla sua età non avrei mai avuto il coraggio di prendere armi e bagagli ed andare a novemila chilometri di distanza dalla mia famiglia, dai miei affetti e dai miei amici per un anno intero. Io alla sua età facevo fatica ad andare al supermercato da solo senza chiamare mia madre per chiederle che tipo di pasta dovevo comprare. Lei invece sale su un aereo come se stesse prendendo l’autobus per andare in centro.

Trascorso quel fine settimana, durante il quale ho alternato momenti di produttività a lunghe sessioni di fissare il vuoto come un monaco zen che ha perso la bussola, mi sono ritrovato il lunedì successivo a bere il primo caffè della giornata nella mia cucina ed ad un orario antelucano che farebbe impallidire i monaci certosini. Uno di quegli orari dove ti chiedi se ha senso chiamarlo “mattina presto” o se non sia più onesto definirlo “notte tardi”.

Finito il caffè, che ho sorseggiato con la lentezza di chi non ha nessuna fretta di affrontare la giornata, mi sono infilato nel mio studio. Il primo impulso, quello che arriva prima ancora che il cervello abbia il tempo di processare se sia una buona idea o meno, è stato quello di mettermi davanti al computer e cominciare a scrivere un messaggio di posta elettronica a mia figlia.

Email. Non WhatsApp. Non un messaggio vocale. Non una Stories su Instagram che sparisce dopo ventiquattro ore come se i pensieri avessero una data di scadenza. Una vera e propria email, quel mezzo di comunicazione che i ragazzi considerano antico quanto i geroglifici egizi ma che io continuo ostinatamente a preferire perché mi piace l’idea che le parole abbiano un peso, uno spazio, una permanenza. Siamo su Parole Sparse, o no?

A questo punto potete immaginare come io abbia condensato in quelle righe tutti gli stereotipi del padre che si ritrova lontano dalla figlia. Davvero, proprio tutti, dal primo all’ultimo. C’era il “Mi manchi già”, ovviamente. C’era il “Sono orgoglioso di te” che non poteva mancare. C’era pure il “Ricordati di mangiare bene” perché noi padri italiani siamo geneticamente programmati per preoccuparci dell’alimentazione dei figli anche quando questi sono perfettamente in grado di nutrirsi da soli. C’era persino un “Studia ma divertiti” che è il classico ossimoro che i genitori sparano convinti di essere saggi quando in realtà stanno solo dicendo cose che si contraddicono a vicenda.

Poche ore dopo ho ricevuto una risposta. Felicità infinita. Il tipo di felicità che ti fa dimenticare momentaneamente che hai quarantacinque anni, un mutuo da pagare e la schiena che scricchiola quando ti alzi dalla sedia.

Da quel giorno i nostri messaggi di posta del lunedì sono diventati un’occasione ricorrente che, credo, entrambi aspettiamo coltivando il piacere dell’attesa. Non è più solo un’abitudine. È diventato un rituale, una di quelle cose che danno forma alla settimana e senso al tempo che passa. Il lunedì non è più solo il giorno in cui ricomincia la settimana lavorativa e tutti si lamentano sul loro social network preferito. Il lunedì è il giorno in cui io e mia figlia ci scriviamo.

Questi messaggi sono densi di fatti, chiacchiere, emozioni, carezze virtuali, risate raccontate a parole, storie che si dipanano con la lentezza di chi sa di avere tempo. Mi sono reso conto, con quel tipo di consapevolezza che ti arriva all’improvviso mentre stai facendo tutt’altro, che abbiamo aggiunto un’altra dimensione a quelle che già conoscevamo nel rapporto tra padre e figlia. Una dimensione fatta di parole scelte con cura, di pensieri che hanno il tempo di sedimentare prima di essere scritti, di confidenze che forse non avremmo condiviso davanti ad una pizza ma che sulla pagina bianca di una email trovano il loro spazio naturale.

Nel frattempo continuiamo a telefonarci ed a vederci in videochiamata, ovviamente. Non è che abbiamo abolito la tecnologia sincrona in favore di quella asincrona, mica siamo dei puristi dell’epistolografia. Ma volete mettere una lettera? Una videochiamata finisce. La guardi, la vivi, ti connetti per quei venti minuti o quell’ora, e poi sparisce nell’etere come se non fosse mai esistita. Puoi ricordarla, certo, ma non puoi riprenderla in mano.

Una lettera, invece, la puoi leggere mille volte quando ti serve. Puoi tornarci sopra un martedì pomeriggio quando sei giù di morale. Puoi rileggerla un sabato mattina mentre bevi il caffè. Puoi conservarla, fisicamente o digitalmente, e sapere che sarà lì, identica, quando ne avrai bisogno. È una forma di presenza nell’assenza, un modo per dire “ci sono” che dura nel tempo più di qualsiasi chiamata.

E forse, alla fine, questa è stata la vera scoperta di questo anno di lontananza: che la distanza geografica può creare vicinanze di tipo diverso, se solo sei disposto a cercarle.

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