
Mancano poche settimane al Natale ed anche quest’anno, puntuale come il raffreddore di stagione e le canzoni di Michael Bublé in ogni centro commerciale del pianeta, è arrivato il momento di pensare ai regali che farò alle persone che amo.
Dai, lo confesso apertamente, senza filtri e senza quella ipocrisia sociale che ci impone di fingere di voler bene a tutti: io i regali di Natale li faccio solo alle persone a cui voglio molto, molto, molto bene. Tre “molto” che non sono casuali ma che servono a sottolineare quanto sia selettivo in questa faccenda. Ovviamente i fortunati, e qui le virgolette e il punto interrogativo sono d’obbligo perché ricevere un regalo da me significa anche sorbirsi le mie elucubrazioni sul perché ho scelto proprio quello, si contano sulle dita di una mano. Anzi, probabilmente di una mano di un falegname distratto che ha avuto un incidente con la sega circolare.
Se proprio devo dirla tutta, e ormai siamo in confidenza quindi tanto vale essere sinceri fino in fondo, faccio veramente molta fatica a sopportare il tema dei regali di Natale aziendali. Quella liturgia corporativa che prevede lo scambio rituale di oggetti più o meno utili tra persone che per il resto dell’anno si ignorano bellamente o, peggio ancora, si fanno le scarpe con entusiasmo degno di miglior causa.
Ma davvero, dico sul serio, pensiamo che se mandiamo una bottiglia di prosecco al pinguino di turno questi sarà ben disposto nei nostri confronti? Che quella bottiglia dal prezzo di listino di dodici euro, probabilmente comprata in stock insieme ad altre trecento identiche, creerà un legame indissolubile di stima professionale e reciproco rispetto? Dubito. Dubito fortemente. Quel prosecco finirà nella tombolata aziendale, o regalato a sua volta a qualcun altro in una catena infinita di regali indesiderati che circolano per l’Italia come le valigie smarrite negli aeroporti.
Da questo punto di vista assomiglio decisamente al Grinch, quel magnifico personaggio verde dal cuore tre taglie più piccolo del normale che ha capito tutto della vita. Con la differenza che io non vivo in cima al Monte Brinco e non ho un cane che si chiama Max, ma condivido appieno la sua insofferenza verso l’ipocrisia natalizia istituzionalizzata. Se il Dottor Seuss avesse ambientato la storia in un’azienda italiana, probabilmente il Grinch sarebbe stato il responsabile acquisti che ogni anno deve approvare il budget per i cesti natalizi e muore un po’ dentro ogni volta che firma l’ordine.
Ma torniamo al pensiero precedente, ché le divagazioni sul Grinch aziendale rischiano di portarci lontano dal cuore del discorso.
Per queste poche persone che mi sono vicine, quelle che hanno il privilegio discutibile di essere incluse nella mia ristretta cerchia di affetti, il tema del regalo di Natale non è affatto banale da risolversi. Non si tratta di aprire Amazon il 23 Dicembre alle undici di sera e comprare la prima cosa che compare nella sezione “I più venduti”, pregando che arrivi in tempo e che non sia troppo imbarazzante da scartare davanti a testimoni.
Non lo vivo come un atto sociale dovuto, come quelle cose che fai perché “si fa così” e perché altrimenti la gente parla male di te. Per me si tratta di quel momento in cui dici loro, senza necessariamente pronunciare le parole ad alta voce perché certe cose si capiscono: “Hey, grazie per esserci stato nell’anno passato. Grazie per avermi sopportato nelle mie crisi esistenziali. Grazie per aver riso alle mie battute anche quando non erano divertenti. Grazie per essere ancora qui nonostante tutto.”
Naturalmente questo discorso non vale solo per i regali di Natale ma per qualsiasi altra festa comandata. Compleanni, anniversari, onomastici se siete tradizionalisti, persino San Valentino se avete la fortuna di avere qualcuno con cui condividere quella giornata senza sentirvi ridicoli. Ogni occasione di regalo è un’occasione per comunicare qualcosa che va oltre l’oggetto stesso.
Non si tratta quindi di scelte che posso fare con leggerezza, tipo “boh, un libro va sempre bene” oppure “un buono Amazon così sceglie lui”. No, questo approccio mi sembra una resa, un’ammissione di non conoscere abbastanza bene la persona a cui stai facendo il regalo. Se non sai cosa regalare a qualcuno, forse dovresti chiederti quanto davvero conosci quella persona.
Per me questi regali sono importanti. Tremendamente, irrimediabilmente, ostinatamente importanti.
Accade quindi, e qui vi svelo il mio metodo che probabilmente vi sembrerà o geniale o patologico a seconda della vostra sensibilità, che nel corso dell’anno quando sono in compagnia di queste persone io colga dei segnali più o meno deboli riguardo qualcosa che potrebbe piacergli ricevere in dono. Un biglietto di un concerto menzionato di sfuggita mentre si parla d’altro. Un libro intravisto in una vetrina con un commento del tipo “prima o poi lo compro”. Un salto con il paracadute confessato come sogno irrealizzato dopo il terzo bicchiere di vino. Un capo di vestiario ammirato su qualcuno per strada. Un oggetto che gli ricorda qualcosa. Un’esperienza che vorrebbe fare. E via discorrendo.
Questi segnali sono ovunque, se sai dove guardare. Il problema è che la maggior parte delle persone non presta attenzione. Sono troppo impegnate a pensare a quello che diranno dopo, a controllare il telefono, a preoccuparsi di questioni che sembrano urgenti ma che nella grande scala delle cose non contano assolutamente nulla. Io invece ascolto. Ascolto e memorizzo. Che poi “memorizzo” è un termine generoso perché la mia memoria fa acqua da tutte le parti, come ampiamente documentato in altri scritti, e quindi devo ricorrere a stratagemmi analogici.
Cerco di fissare nella mia mente quel momento, quel frammento di conversazione, quella rivelazione casuale, e non appena sono in grado di raggiungere, non visto, il mio onnipresente taccuino, mi segno quello che ho raccolto. Il taccuino in questione è uno di quei taccuini di Paper Republic che adoro e che oramai mi seguono da anni anche se dentro ci scrivo cose tipo “Marco: vinile dei Pink Floyd” o “Giulia: quel libro sul Giappone di cui parlava quella sera”.
Il fatto che debba farlo “non visto” è fondamentale. Mettersi a scrivere su un taccuino mentre qualcuno sta parlando è maleducazione, e inoltre rovinerebbe l’effetto sorpresa del regalo. “Ma come facevi a sapere che volevo proprio questo?” è la domanda che vuoi sentirti fare quando la persona scarta il regalo. Se ti ha visto prendere appunti, l’effetto è compromesso.
Quando arriva il momento di fare un regalo, tipicamente qualche settimana prima dell’evento in questione perché non sono uno di quelli che compra tutto all’ultimo minuto (per i regali, almeno, nel resto della vita sono un disastro), scorro la mia lista e cerco di trovare la migliore idea possibile tra quello che ho raccolto durante l’anno. A volte la scelta è ovvia, a volte richiede una riflessione più profonda su cosa comunicherà meglio quello che voglio comunicare.
Una volta comprato l’oggetto, e qui arriva la parte che probabilmente vi farà pensare che sono fuori di testa, mi occupo sempre personalmente di incartarlo. Non porto il regalo in negozio chiedendo “me lo impacchetta per favore?”. Non uso quelle buste regalo che sono l’equivalente del “non mi andava di fare lo sforzo”. Compro la carta, i nastri, tutto il necessario, e dedico tempo a confezionare il pacco con le mie mani.
Sì, lo so che il mio incarto non sarà mai bello come quello fatto dalla commessa del negozio di lusso che ha frequentato corsi specifici sull’arte dell’origami applicata al packaging. Sì, lo so che a volte gli angoli non vengono perfetti e che il nastro si arriccia in modi che non avevo previsto. Ma è fatto da me, con le mie mani, e questo conta qualcosa. O almeno, io voglio credere che conti qualcosa.
E ancora più importante, scrivo sempre un biglietto che accompagna il regalo. Non un biglietto generico comprato in cartoleria con scritto “Buon Natale” e la firma sotto. No, un biglietto scritto a mano, in genere spiritoso perché l’autoironia è la mia lingua madre, che spiega perché ho scelto proprio quel regalo, cosa significa per me, magari con un riferimento a quel momento dell’anno in cui ho capito che era la scelta giusta.
Questi biglietti sono probabilmente la parte più impegnativa di tutto il processo. Scrivere qualcosa di significativo senza scadere nel melenso, di divertente senza sembrare superficiale, di personale senza diventare imbarazzante, è un’arte sottile che richiede diversi tentativi e una discreta quantità di biglietti cestinati prima di arrivare alla versione finale.
Secondo me i regali sono importanti e devono essere sentiti. Devono trasmettere qualcosa che va oltre il valore commerciale dell’oggetto. Devono dire alla persona che riceve: ti conosco, ti ascolto, mi importa di te abbastanza da dedicare tempo e pensiero a questo gesto.
Se si tratta di un dovere, se lo fai perché “tocca farlo”, se scegli il primo oggetto che capita perché devi comunque presentarti con qualcosa in mano, allora meglio evitare. Meglio non fare nessun regalo piuttosto che farne uno svogliato, generico, intercambiabile. Un regalo fatto per obbligo è peggio dell’assenza di regalo, perché comunica esattamente il contrario di quello che un regalo dovrebbe comunicare.
E con questo, se permettete, vado a consultare il mio taccuino. Mancano poche settimane e ho ancora delle scelte da fare.
Lascia un commento