La carta igienica non si ricrea

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La prendo piuttosto larga, perché certe storie vanno raccontate con la stessa lentezza con cui si decanta un vino o si affronta un lunedì mattina: senza fretta e con una certa rassegnazione filosofica.

Da ragazzo vivevo in un piccolo paese di provincia. Uno di quei posti in cui non serve Google, perché tutto ciò che devi sapere su qualcuno ti arriva comunque entro quarantotto ore, impacchettato in forma di chiacchiera al bar. Diecimila abitanti, più o meno, e un sistema di controllo sociale così fitto che Foucault ci avrebbe scritto due saggi e una monografia. In mezzo a tutto questo, io, i miei genitori e i miei due fratelli, in una villa con giardino, circondati da altre ville di varia gradazione estetico-esibizionistica.

Un pomeriggio venimmo invitati a bere un caffè da uno dei vicini. Entrammo nel loro salotto e quello che vidi fu così assurdo che ancora oggi oscilla tra l’arte concettuale e la criminologia televisiva: divani e poltrone avvolti nella plastica, come se fossero cadaveri dell’arredamento in attesa di autopsia. Se ci fossi finito da adulto, avrei seriamente pensato di essere stato rapito da un serial killer con un feticismo per l’igiene o per l’occultamento delle prove. E invece no. Scoprii che per molti dei miei concittadini quella era normalità. Il salotto era un tabernacolo dell’apparenza, usato solo nelle feste comandate o quando bisognava mostrare al mondo che la famiglia viveva nel decoro, nella compostezza e in una vaga imitazione del buon gusto borghese.

Io rientrai a casa pensando che i miei vicini fossero alieni, e che forse pure i miei genitori avevano qualche gene mutante per non trovare tutto ciò vagamente inquietante. E questo perché io non ero assolutamente abituato a quel comportamento. A casa nostra si viveva, in alcuni casi anche piuttosto intensamente, ogni singolo ambiente. Ancora oggi mi domando perché spendere un patrimonio in mobili che non si possono toccare. È un po’ come comprarsi una Ferrari e tenerla chiusa nel garage a contemplarla, in attesa di un visitatore che possa dire: “Che bella Ferrari, bravo.” Una liturgia del giudizio altrui, insomma.

Passiamo al presente, dove teoricamente dovrei essere diventato un uomo saggio, o quantomeno stanco. Questo, almeno, a giudicare dalla età anagrafica e dai capelli bianchi.

Il mio primogenito ha deciso di andare a studiare in Svizzera e si è trasferito da me. La logistica, come sempre, è la vera architetta dei destini umani. Abbiamo pianificato il necessario: trasporti, servizi, mobili, dettagli. Per lui, la cosa fondamentale era la palestra; per me, fingere di essere un adulto responsabile che sa cosa sta facendo.

A fine settembre è avvenuto il trasloco. Dopo otto anni vissuti da solo, mi aspettavo una rivoluzione copernicana. Invece la mia vita non ha subito alcuna esplosione cosmica. La convivenza scorre bene, quasi sospetta, come quando apri una bolletta e trovi un importo ragionevole. Anche la casa funziona, finché non si entra nelle zone d’ombra dell’adolescenza.

La carta igienica, ad esempio. Nei nostri tre bagni non si rigenera spontaneamente, per quanto mio figlio sembri ancora convinto che da qualche parte, nel mistero della vita, ci sia un’entità addetta alla sua ricomparsa. Le stoviglie, invece, sembrano temere il passaggio dal lavello alla lavastoviglie, come se fosse una dogana interdimensionale. E gli abiti arrivano in lavatrice sempre, invariabilmente, a rovescio, come se avessero una personalità loro e preferissero vivere nel lato oscuro.

Durante le prime settimane lo riprendevo spesso. Mi trasformavo nel Socrate della manutenzione domestica, pronto a interrogare, guidare, ammonire. Poi, due settimane fa, una sorta di illuminazione. Non quella mistica che ti cambia la vita, ma quella più utile e terrena che ti fa dire: sticazzi.

Ho realizzato che la vita non collassa se sono io a portare la carta igienica. Che tre piatti da spostare non sono la mia via crucis quotidiana. Che una padella nel lavello non è il preludio alla barbarie. E ho realizzato soprattutto una cosa: non me ne importa più un fico secco del giudizio degli altri. Per anni ho vissuto come se in casa potesse entrare, a sorpresa, una commissione etica pronta a valutare il livello di civiltà basandosi sul numero di oggetti fuori posto. Ora la domanda è semplice: chi se ne frega? E la risposta è ancora più semplice: davvero, chi se ne frega.

L’ossessione del perfetto mi appare ormai per quello che è: una malattia dell’anima moderna. Ci hanno convinti che la vita debba avere sempre un angolo Instagrammabile, una zona della casa pronta per le visite, una forma rassicurante da esibire. Io invece preferisco l’armonia, quella vera, quella che nasce quando smetti di performare per un pubblico immaginario.

Due chiacchiere con mio figlio su un test di Data Science valgono più di una cucina che luccica. È filosofia spicciola, certo, ma è anche vita vissuta. E la vita, quando la guardi da vicino, se ne frega del design (che poi detto da me, che di design ci vivo…).

Una sera, mentre giravo l’ennesima maglietta al verso giusto, ho capito che ero stufo di seguire un’agenda che non avevo scritto io. Stanco di correre dietro a un ideale di efficienza domestica che assomiglia più a un’ipnosi collettiva che a una necessità reale. Stanco di voler dimostrare qualcosa a qualcuno quando, in fondo, nessuno sta realmente guardando.

Così ho iniziato a coltivare piccoli atti di ribellione quotidiana. Un bicchiere lasciato sul tavolo per qualche minuto in più, ma anche per qualche giorno. Un messaggio non letto subito. Una padella ignorata con deliberata consapevolezza. Non sono trasgressioni epocali, ma sono miei, sono gesti minuscoli che riconsegnano a me stesso il diritto di non vivere in un museo.

Sto scoprendo che nella leggera imperfezione c’è una forma di libertà che non avevo mai considerato. Una libertà intima, quasi segreta, che dice: questo spazio è vissuto. Questo spazio è mio.

E poi c’è mio figlio, con cui sto imparando una nuova forma di filosofia domestica: il mondo non va raddrizzato. Va abitato. E il caos condiviso, a volte, è la forma più autentica di armonia che ci sia.ura domestiche.

Due chiacchiere con mio figlio sul test di Data Science valgono molto di più di due piatti puliti o della carta igienica nel bagno.

Sono piuttosto stanco di vivere secondo una agenda che non è la mia. Piccoli atti di ribellione fanno vivere meglio.

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