
Nell’ultimo anno, o giù di lì, perché quando invecchi il senso del tempo diventa una variabile piuttosto elastica e un anno potrebbe benissimo essere stato un anno e mezzo o forse solo nove mesi, ho cominciato a prestare maggiore attenzione al modo in cui spendo il mio denaro.
Diciamo la verità, e ormai sapete che con voi non ho segreti dato che continuo a confessare pubblicamente le mie inadeguatezze come se fossi in un gruppo di auto-aiuto permanente, ho sempre affrontato il tema con grandissima leggerezza. Una leggerezza che sarebbe stata invidiabile se applicata alla vita in generale, ma che quando si tratta di finanze personali assume i contorni della pura e semplice irresponsabilità.
Se per motivi professionali vivo giornalmente l’ansia da budget, costi e ricavi, passando ore a scrutare fogli Excel che mi guardano con la severità di un professore di matematica davanti a un compito sbagliato, dal punto di vista personale non credo di avere mai messo in piedi un budget di spesa personale. Mai. Neanche una volta. Neanche per sbaglio.
Davvero, mi cospargo il capo di cenere di fronte a questa grave mancanza, anche se devo dire che l’atto stesso di cospargersi il capo di cenere è una pratica che andrebbe rivalutata per la sua efficacia terapeutica. Forse i nostri antenati avevano capito qualcosa che noi abbiamo dimenticato, o forse era solo una forma di penitenza visibile che oggi abbiamo sostituito con i post sui social dove confessiamo le nostre colpe sperando in qualche like compassionevole.
Ora, senza una motivazione precisa, senza un evento scatenante che possa giustificare questo improvviso interesse per le mie finanze personali, tipo un crollo in borsa o la scoperta di avere un figlio illegittimo che richiede il mantenimento, ho cominciato a fare più caso alle mie spese. Nella realtà dei fatti si è trattato di una constatazione maturata durante un uggioso fine settimana di Novembre, uno di quei weekend dove piove da venerdì sera a domenica pomeriggio con quella costanza che ti fa perdere ogni speranza nell’esistenza del sole.
Mi sono reso conto, seduto sul divano con una tazza di tè che si raffreddava mentre fissavo il soffitto come se contenesse le risposte ai grandi quesiti dell’esistenza, che era più o meno un anno che non compravo nulla di utile o futile per me. Nulla. Zero. Niente di niente. Eccezion fatta per i vestiti che necessiterebbero di uno scritto a parte, anzi, probabilmente di un saggio antropologico completo, perché continuo nel mio perenne ciclo ingrassamento/dimagrimento, se così lo vogliamo chiamare con un eufemismo gentile che maschera quella che in realtà è una incapacità cronica di mantenere un peso costante per più di tre mesi consecutivi.
Questo ciclo mi costringe a possedere almeno tre taglie diverse di pantaloni, come se il mio armadio fosse un museo delle mie fluttuazioni ponderali. C’è la sezione “periodo di grazia” con i pantaloni che mi stavano quando pesavo cinque chili meno. C’è la sezione “periodo attuale” con i pantaloni che metto adesso sperando che continuino a starmi bene. E poi c’è la sezione “periodo di abbondanza” con quei pantaloni più larghi che tengo lì come una forma di assicurazione contro le feste natalizie e i pranzi della domenica.
L’unico altro capitolo di spesa degno di nota sono stati quei servizi digitali di cui ho scritto qualche tempo addietro, quella lunga lista di abbonamenti che rinnovo automaticamente come se fosse una tassa inevitabile come l’IVA o la morte.
Ecco, queste sono state le mie uniche debolezze negli ultimi dodici mesi. Niente viaggi esotici. Niente gadget tecnologici comprati alle tre di notte su Amazon in preda a un impulso incontrollabile. Niente cene stellate. Niente acquisti compulsivi di oggetti di cui non avevo bisogno ma che “sembravano una buona idea sul momento”. Solo abbonamenti digitali che si rinnovano silenziosi come ladri nella notte.
Ho quindi pensato, continuando la mia sessione di autoanalisi sul divano sotto la pioggia battente, che in questo momento guido una macchina che ha più di nove anni e che conta duecentoquarantamila chilometri sul tachimetro. Una cifra che scrivo in lettere perché vista così fa più impressione. Duecentoquarantamila. Due-quattro-zero-zero-zero-zero. Abbastanza per fare sei volte il giro della Terra all’equatore, se le macchine potessero galleggiare e io avessi la pazienza di guidare sull’oceano.
Ogni tanto mi capita di pensare che dovrei cambiarla, di solito quando qualche collega più giovane arriva in ufficio con una macchina nuova fiammante che profuma ancora di concessionario e fa quel rumore tipico delle cose che non hanno ancora cominciato a tradire le aspettative del proprietario. E dopo sette secondi netti, cronometrati con la precisione di un arbitro olimpico, mi dico che non è il caso.
Le macchine non mi sono mai piaciute più di tanto, lo ammetto con quella sincerità che probabilmente mi farebbe espellere da qualsiasi gruppo di appassionati di motori. Per me sono sempre state mezzi di trasporto, niente di più. Non capisco chi si emoziona davanti a un motore V8 o chi sa distinguere a orecchio un sei cilindri da un quattro cilindri. Per me una macchina è un oggetto che deve portarmi da A a B senza lasciarmi a piedi, e tutto il resto è letteratura per riviste specializzate che non leggerò mai.
E confesso, con la stessa sincerità con cui ammetterei di non aver mai letto l’Ulisse di Joyce per intero, il panorama dell’offerta attuale mi disorienta. Troppe marche, troppi modelli, troppe opzioni, troppi optional che non so nemmeno cosa facciano. Ci sono più configurazioni possibili per una macchina moderna che combinazioni al lotto. Vuoi il cruise control? Vuoi il cruise control adattivo? Vuoi il sistema di frenata automatica? Vuoi i sensori di parcheggio? Vuoi la telecamera posteriore? Vuoi il display da sette pollici o quello da dieci? Vuoi Apple CarPlay o Android Auto o tutti e due? Vuoi i sedili riscaldati? Vuoi anche quelli ventilati? E le luci? LED, Xenon, Matrix LED?
Mi sono convinto che scegliere una nuova automobile sia una impresa titanica dalla quale mi voglio assolutamente sottrarre, una sfida che richiede competenze che non possiedo e un interesse che non ho. È come chiedermi di scegliere tra trentasette diverse tonalità di bianco per dipingere una parete. Alla fine sono tutte bianche, per l’amor del cielo.
E poi, ripeto per enfasi, non me ne può fregar di meno. La mia macchina attuale continua a fare il suo lavoro senza battere ciglio, senza lamentarsi, senza chiedermi attenzioni che non sono in grado di darle. Si muove dal punto A al punto B senza difficoltà e con cortese sollecitudine, come un maggiordomo britannico che ti serve il tè senza farsi notare. E’ vero che ultimamente continua a ricordarmi che sono in ritardo di cinquecentosessantotto giorni sul tagliando. Io la ignoro perché anche il tagliando dell’auto è una scocciatura. Aspetterò il carro attrezzi quando sarà necessario.
E poi devo dire, e qui l’affetto comincia a farsi strada attraverso le mie resistenze ciniche, che mi piace ancora un sacco. Comincia a mostrare i primi segni di vecchiaia, è vero. Qualche ruga sulla pelle degli interni, quelle crepe minuscole che compaiono sul cruscotto dopo anni di sole estivo. Qualche acciacco sulla carrozzeria che racconta storie di parcheggi affrettati e portiere aperte con troppa foga. Una riga qui e là che potrei far riparare ma che invece tengo come cicatrici onorevoli. Un segno sui cerchioni, probabilmente frutto di un marciapiede affrontato con l’angolazione sbagliata in un pomeriggio di fretta.
Eppure io quando ci salgo mi sento a casa. Non è una frase fatta, è proprio quella sensazione fisica di familiarità che provi quando entri in un posto che conosci così bene da poterci camminare bendato. Conosco ogni rumore, ogni vibrazione, ogni caratteristica del suo comportamento. So che al secondo semaforo dopo casa tende a singhiozzare se non la scaldo abbastanza. So che il portabicchieri è leggermente storto da quando mio figlio ci ha incastrato una bottiglia troppo grande.
Ci sono cresciuti dentro i miei figli, letteralmente cresciuti, dai seggiolini per neonati ai rialzi, fino al giorno in cui hanno potuto sedersi normalmente e i loro piedi toccavano il pavimento. Ci ho portato a cena la mia fidanzata la prima volta, nervoso come un adolescente al primo appuntamento, preoccupato che la macchina facesse rumori strani o che l’interno non fosse abbastanza pulito. Mi ha portato in vacanza, al mare e in montagna, in città che non conoscevo e posti che ora ricordo con affetto. E mi ha trasportato da centinaia di clienti, ascoltando silenziosa le mie bestemmie nel traffico e i miei monologhi preparatori prima di meeting importanti.
Se solo avesse potuto registrare i pensieri che mi attraversavano la mente mentre guidavo sono certo avrebbe potuto scrivere un ottimo testo di psicologia, spicciola, ché non ho pensieri poi così profondi ma comunque abbastanza interessanti da meritare un’analisi. Quante decisioni importanti ho preso al volante? Quante telefonate difficili ho fatto in vivavoce? Quante canzoni ho cantato a squarciagola convinto che nessuno mi sentisse?
Oramai la conosco e lei conosce me. È una di quelle relazioni che funzionano perché entrambe le parti sanno esattamente cosa aspettarsi dall’altra. Non provo davvero alcun desiderio di volerla cambiare, di tradirla con un modello più giovane e attraente. E quindi quella macchina rimarrà lì, nel mio garage, fino a quando qualche legge anti-inquinamento non mi costringerà, obtorto collo, espressione latina che uso per darmi un tono anche se significa semplicemente “contro la mia volontà”, a mandarla in pensione.
Senza ombra di dubbio sarà un addio molto doloroso. Più doloroso di quanto sia ragionevole per un essere umano adulto che si separa da un oggetto inanimato fatto di lamiera e plastica.
Nell’ultimo anno non ho ceduto troppo nemmeno agli acquisti di cancelleria, e qui arriviamo a un altro dei miei talloni d’Achille. Oggetti per i quali nutro un vero e proprio feticismo che in passato ho fatto molta fatica a tenere a bada, come un alcolista che cerca di stare lontano dai bar. Penne, matite, quaderni, taccuini, carta pregiata, washi tape, post-it di ogni forma e colore. Potrei aprire una cartoleria con la mia collezione personale.
Credo di avere acquistato solo un paio di quaderni durante un viaggio con la mia fidanzata, in una di quelle cartolerie artigianali dove ogni prodotto ha una storia e costa il triplo di quello che costerebbe da Mondadori ma tu lo compri lo stesso perché “è fatto a mano” e “la carta è speciale”. Ed un taccuino, insieme a qualche matita, in un negozio dal quale era fisicamente impossibile uscire senza avere acquistato qualcosa, uno di quei posti dove ti dicono “dai pure un’occhiata” e tu sai già che uscirai con una busta in mano e il portafoglio più leggero.
Nel frattempo da più di cinque anni mi segue una copertina in pelle di Paper Republic che di volta in volta ospita dei piccoli taccuini su cui scrivo tutto quello che mi ha colpito. Pensieri sparsi, citazioni rubate, numeri di telefono di persone che poi non chiamerò mai, schizzi di idee che sembravano geniali alle tre di notte e ridicole alla luce del giorno. Questo oggetto viaggia sempre con me, nella tasca interna della giacca o nella borsa, come una forma di assicurazione contro l’oblio.
E nel corso degli anni la pelle si è scurita, acquisendo quella patina che gli oggetti in pelle naturale sviluppano con il tempo e l’uso. In alcuni punti si è graffiata, segni di vita vissuta che raccontano di quando è caduta per terra o è stata compressa nello zaino.
Eppure, anche da questo non riesco a separarmi. Potrei comprarne una nuova, identica, magari approfittando di qualche sconto. Potrei farla riparare da qualche artigiano specializzato. Invece la tengo così, con tutti i suoi difetti, perché invecchia ed io con lei. C’è qualcosa di confortante nel vedere un oggetto che cresce vecchio insieme a te, che porta i segni del tempo come tu porti le rughe e i capelli bianchi.
Che poi ci sarebbe da domandarsi, e qui apro una voragine esistenziale che forse sarebbe meglio lasciare chiusa, che cosa accadrà a tutti quei taccuini che accumulo in un armadio del salotto. Ce ne saranno almeno una trentina, forse quaranta, riempiti in questi anni con la mia scrittura sempre più illeggibile. Con ogni probabilità finiranno in una discarica insieme ai resti del sottoscritto, gettati via da qualche erede che non avrà la pazienza di leggerli e che penserà “ma chi se ne frega di cosa scriveva il nonno nel 2024”.
C’è poi un orologio che è un ricordo di mio padre e che non indosso molto di frequente. Un orologio comprato da lui negli anni ottanta quando ancora pensava che gli orologi fossero investimenti e non solo oggetti per misurare il tempo. Credo che oggi verrebbe definito un orologio da fighetto, uno di quei pezzi che ti fanno sembrare più ricco di quanto tu sia realmente e che attirano sguardi di chi si intende di queste cose o di qualche malintenzionato che intende metterselo in tasca.
Non lo indosso spesso perché vivo nel timore costante e probabilmente irrazionale di perderlo. Lo indosso solo nelle occasioni importanti, quelle dove non c’è il rischio che mi dimentichi di averlo al polso e lo lasci sul lavandino di un bagno pubblico. Eppure mi piace averlo, mi piace indossarlo quando lo faccio, e mi piace osservarlo con quella ammirazione che si riserva agli oggetti belli e ben fatti.
Il vetro del quadrante è graffiato, piccole righe che si vedono solo con la luce giusta e che l’orologiaio mi ha sempre proposto di lucidare. La ghiera che circonda il quadrante è graffiata anche lei, segni di urti contro tavoli e porte che mio padre non ha mai fatto riparare. Ed in alcuni punti lo smalto è saltato, rivelando il metallo sottostante come una ferita che ha perso la sua medicazione.
Ogni due tre anni lo porto a revisionare, perché gli orologi meccanici hanno bisogno di manutenzione come le macchine hanno bisogno del tagliando. E l’orologiaio, un signore di settant’anni che ha un negozio in centro e che conosce ogni orologio che passa per le sue mani, mi chiede sempre se voglio sostituire quei pezzi danneggiati con qualcosa di nuovo, o new old stock come dicono quelli fighi, cioè pezzi originali mai usati che sono stati conservati in magazzino per decenni.
Io rispondo sempre di no, con la fermezza di chi ha preso una decisione e non intende tornare sui suoi passi, perché desidero che rimanga così. Esattamente così. Con ogni graffio al suo posto, con ogni imperfezione dove mio padre l’ha lasciata. Voglio che sia identico a come era quando lui lo portava, con tutte le battaglie che ha combattuto al suo polso. Ogni parte come quando fu nuovo oramai più di venti anni fa, tranne per i segni del tempo che sono l’unica cosa che voglio preservare.
E così anche questo non viene sostituito, non viene riparato, non viene “migliorato”. Resta così com’è, imperfetto e proprio per questo perfetto.
Insomma, tre esempi, tre oggetti, tre relazioni con cose che dovrebbero essere solo cose ma che invece sono diventate qualcosa di più, per dire che mi sto affezionando alle cose vecchie. Alle cose che portano i segni del tempo, che raccontano storie, che hanno una memoria fisica dei momenti che abbiamo condiviso.
Che sia un sintomo di vecchiaia anche questo? Questo attaccamento alle cose usurate, questa resistenza al nuovo, questa preferenza per il familiare rispetto all’eccitante? Forse, e questa è l’interpretazione che preferisco, ho semplicemente capito che in un mondo che va sempre più veloce, dove tutto è sostituibile e dove la novità dura il tempo di un battito di ciglia, tenere stretto qualcosa che invecchia con te è una forma di resistenza. Una forma di ribellione contro l’obsolescenza programmata, contro il consumismo sfrenato, contro l’idea che il nuovo sia sempre meglio del vecchio.
O forse sono solo tirchio e mi sto inventando una filosofia per giustificare il fatto che non voglio spendere soldi per cose nuove. Non lo so. Probabilmente è un po’ di tutte e due le cose.
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