Una delle grandi consapevolezze che si maturano nel corso degli anni, tra quelle che ti fanno sentire tremendamente saggio ma anche pericolosamente vicino alla categoria “persone che iniziano le frasi con ‘ai miei tempi’”, è che tutto, ma proprio tutto, non dura per sempre.
La collezione delle figurine dei calciatori che conservavi con la cura che si riserva ai manoscritti medievali? Finita in una scatola in cantina dove nessuno la troverà mai più, tranne forse gli eredi che la butteranno via senza nemmeno guardarla. I romanzi dei tuoi autori preferiti? Prima o poi smettono di scrivere, oppure, peggio ancora, continuano a scrivere ma ormai hanno perso quella scintilla che ti faceva divorare le loro pagine come se dipendesse dalla lettura l’ossigenazione del tuo cervello. Il boccale di birra? Beh, quello finisce per ragioni più immediate e consolatorie, diciamo. Le amicizie e le relazioni? Ecco, su questo tema ci sarebbe da scrivere l’Enciclopedia Britannica in sedici volumi, ma evitiamo di aprire voragini esistenziali durante un noioso giovedì pomeriggio.
E figuriamoci, dico io, figuriamoci un sito web.
Dopo qualche anno di alterne vicende, dove per “alterne vicende” si intende quel florilegio di aggiornamenti entusiastici seguiti da mesi di abbandono totale, tentativi di restyling a mezzanotte ispirato da un bicchiere di vino di troppo e promesse solenni di “questa volta lo curo davvero”, è giunto il momento di ritirare dal grande pubblico Corrente Debole.
Diciamo la verità, che tanto ormai siamo tra amici e le bugie le lasciamo ai politici di professione. Negli ultimi tempi è stato grandemente, pesantemente, olimpicamente trascurato. Non è stata negligenza volontaria, sia chiaro. È stata quella particolare forma di negligenza che deriva dal fatto che aprire WordPress ti fa venire voglia di darti alla macchia. Negli anni ha cambiato pelle diverse volte, più volte di un serpente in fase di crescita accelerata, ed ultimamente aveva preso la forma di un Frankenstein. Non quello di Mary Shelley, per intenderci, quello letterario e carico di pathos esistenziale. No, quello di Mel Brooks. Quello con Gene Wilder che urla “Rimetta a posto la candela!” (citazione che se non cogliete andate immediatamente a recuperare Frankenstein Junior, che è precetto morale prima ancora che cinematografico).
Troppi plugin che litigavano tra loro come cugini al pranzo di Natale. Troppi temi installati “tanto per provare” e poi mai rimossi. Troppi esperimenti di integrazione con servizi esterni che avevano smesso di funzionare nel 2018 ma che non avevo mai avuto il coraggio di disinstallare. Un vero e proprio cimitero digitale con lapidi che recitavano “Qui giace un widget che sembrava una buona idea alle tre di notte”. E poi l’hosting che era ormai vecchio di una decina d’anni, costava come una macchina d’epoca ed era un impresa cercare di mantenerne la sicurezza.
E così la palla passa a Parole Sparse. Che è un nome che suona esattamente come quello che è: un posto dove buttare giù pensieri senza la pretesa di costruire un’architettura editoriale degna del New York Times. Un posto dove, se va bene, si scrive quando c’è qualcosa da dire. E se non c’è niente da dire? Beh, silenzio. Mica dobbiamo riempire il vuoto cosmico con contenuti tanto per.
Comincio oggi, vedremo con quanta costanza riuscirò a stargli appresso. Statisticamente parlando, e la statistica non mente mai anche quando vorremmo che lo facesse, le probabilità non sono esattamente dalla mia parte. Ma l’ottimismo, diceva qualcuno che non ricordo, è il profumo della vita. O forse era il parmigiano. Boh, fate voi.
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