Abbonamenti digitali e come dimenticarsene

Photo by Richard Cohrs on Unsplash

Si sta avvicinando la fine dell’anno, quel periodo dove tutti fanno buoni propositi che dureranno all’incirca fino al 3 Gennaio ed io mi sono deciso a fare un pochino di pulizia nella mia, purtroppo lunghissima, lista di sottoscrizioni a servizi digitali. Una di quelle attività che rimandi da mesi, se non anni, convinto che “la prossima settimana mi ci metto”, finché non ti ritrovi il 28 Dicembre a fissare l’estratto conto della carta di credito come se fosse un romanzo dell’orrore di Stephen King.

Nel corso degli ultimi anni ne ho accumulate tante, sicuramente troppe. Così tante che se dovessi elencarle tutte probabilmente finirei per scrivere qualcosa che assomiglia alla lista della spesa di una famiglia numerosa prima del cenone di Natale. Servizi che ho sottoscritto con l’entusiasmo di un bambino davanti all’albero di Natale e che poi ho abbandonato con la stessa velocità con cui abbandono i buoni propositi di andare in palestra.

Molte di queste sottoscrizioni nascondono la classica insidia, quella trappola psicologica che i signori del marketing digitale (mea culpa…) hanno affinato con una precisione che farebbe invidia a un orologiaio svizzero. È un meccanismo talmente rodato che meriterebbe di essere studiato nelle facoltà di economia comportamentale, ammesso che non lo facciano già.

Ecco il mio pattern tipico, che condivido con voi nella speranza che possiate riconoscervi e sentirvi meno soli nella vostra inadeguatezza organizzativa.

Sto lavorando ad un progetto personale, uno di quei progetti che nascono alle undici di sera quando dovresti dormire ma invece sei convinto di avere avuto l’idea del secolo. Trovo un servizio online che ritengo possa tornarmi utile, uno di quei tool che promettono di cambiarti la vita. Mi faccio attirare dalla sottoscrizione annuale perché, ovviamente, costa meno al mese rispetto a quella mensile e il mio cervello, che evidentemente non ha imparato nulla dalle esperienze precedenti, mi convince che userò quel servizio per tutto quel tempo. “Ma certo che lo userò! È esattamente quello di cui ho bisogno!” mi dico, con la stessa convinzione con cui mi dicevo che avrei letto tutti quei libri comprati in offerta su Amazon.

Naturalmente non faccio caso al fatto che la sottoscrizione si rinnova automaticamente. Quella frasetta scritta in carattere corpo 8 in fondo alla pagina, quella che dovresti leggere ma che nessuno legge mai perché siamo tutti troppo impegnati a cliccare su “Continua” come se fossimo pagati per farlo. Me ne dimentico, vittima di quella combinazione letale di pigrizia ed inefficienza che mi impedisce di tracciare da qualche parte tutte le sottoscrizioni attive. Potrei usare un foglio Excel, un’app dedicata, un quaderno di carta come facevano i nostri nonni. Invece no, mi affido alla mia memoria, che notoriamente ha la capacità di un colabrodo quando si tratta di ricordare cose importanti.

L’anno dopo, puntuale come le tasse, mi ritrovo nell’estratto conto della carta di credito l’addebito per qualcosa che non uso più da undici mesi e mezzo. E lì parte quella sequenza emotiva che va dalla sorpresa, al fastidio, alla rabbia verso me stesso, fino alla rassegnazione. “Vabbè, ormai è fatta, almeno quest’anno lo uso davvero!” mi dico. Spoiler: non lo userò.

Lo stesso discorso si applica anche a quei servizi che per mancanza di tempo non sfrutto a sufficienza per giustificare la spesa. Un esempio per tutti: Netflix. Quel magnifico contenitore di serie TV e film che pago religiosamente ogni mese e che guardo con una frequenza che si aggira intorno alle due ore mensili. Il che significa, se fate i conti, che ogni film che guardo mi costa circa quanto una cena al ristorante. Potrei andare al cinema, comprare i popcorn, prendere un taxi per tornare a casa, e spenderei comunque meno. Ma Netflix resta lì, nella lista delle sottoscrizioni, come un monumento alla mia incapacità di prendere decisioni razionali.

In generale, avvicinandomi a questo esercizio di pulizia con lo spirito dell’esploratore che si addentra nella giungla amazzonica, ho notato dei comportamenti piuttosto standard tra i vari servizi, e pochi, davvero pochi, sono quelli che si distinguono per correttezza e trasparenza.

Sono pochissimi i servizi che ti avvertono in anticipo riguardo il fatto che la sottoscrizione annuale sta per rinnovarsi. Una email, un avviso, una qualsiasi forma di comunicazione che ti dica “Ehi, tra due settimane ti addebiteremo altri settantanove euro, sei sicuro di volerlo?”. No, questo sarebbe troppo civile, troppo rispettoso del cliente. Meglio il silenzio, meglio l’addebito silente che compare nell’estratto conto come un ospite indesiderato alla festa. Quelli più gentili ti usano la cortesia di inviarti la fattura subito dopo l’addebito. Oltre al danno la beffa. Oramai è troppo tardi, cavolo.

Non si tratta proprio di un dark pattern, di quelli che studiamo nei corsi di UX Design e Service Design come esempi di cosa non fare, ma molto gli si avvicina. Siamo in quella zona grigia dove tecnicamente nessuno sta facendo nulla di illegale, dove il contratto che hai firmato, pardon, accettato con un click, prevedeva esattamente questo comportamento. Naturalmente non è loro responsabilità avvisarmi in anticipo di una scadenza. Sono io che dovrei essere sufficientemente intelligente, organizzato e dotato di una memoria funzionante da tenere traccia delle scadenze. Diciamo che si tratta più di una cortesia, di quelle che distinguono le aziende che rispettano i loro clienti da quelle che li considerano semplicemente delle vacche da mungere.

A questo punto, armato di pazienza, caffè e una buona dose di determinazione, comincia un grandissimo tour sul web per cancellare quelle sottoscrizioni per le quali non nutro più alcun interesse. Un viaggio epico che mi ha impegnato per diverse ore e che mi ha fatto rivalutare la complessità dell’esistenza umana.

Diciamo che mi è sembrato di entrare in un girone dantesco, con continui passaggi tra paradiso, purgatorio ed inferno. Dante Alighieri, se avesse vissuto nell’era digitale, avrebbe sicuramente dedicato almeno un canto della Divina Commedia alla cancellazione delle sottoscrizioni online. Immagino già i versi: “Nel mezzo del cammin del nostro click, mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita tra termini di servizio e checkbox sparse qua e là”.

Due esempi bastano a illustrare gli estremi di questo spettro infernale.

Cancellare la sottoscrizione a Netflix è stata una passeggiata di salute. Tre click ed il gioco era fatto. Entri, vai nelle impostazioni, trovi subito la voce “Cancella abbonamento”, confermi, ed è finita. Nessun tentativo di trattenerti con offerte speciali, nessun percorso labirintico tra pagine che sembrano progettate da un architetto sadico, nessuna domanda esistenziale sul perché tu voglia abbandonarli. Solo un semplice “Sei sicuro?” e via. Se tutti i servizi si comportassero così, il mondo sarebbe un posto migliore.

Vero è che subito dopo cominci a ricevere una ridda di messaggi di posta elettronica che ti invitano a tornare all’ovile dicendoti che ti stai perdendo questo e quello. Diciamo che ci sta.

Storia totalmente differente, diametralmente opposta, cosmicamente distante per quanto riguarda GoDaddy. Ah, GoDaddy. Quel fornitore di domini e servizi di hosting che evidentemente ha deciso che i suoi clienti non devono mai, in nessun caso, riuscire ad abbandonarlo senza prima aver attraversato le sette fatiche di Ercole.

Qualsiasi tentativo di annullare il rinnovo automatico si conclude con un laconico “Prova più tardi” che appare sullo schermo con la stessa soddisfazione di un burocrate che ti rimanda allo sportello numero sette. Ho provato la mattina, ho provato il pomeriggio, ho provato in diversi giorni della settimana. Sempre lo stesso messaggio, sempre la stessa frustrazione crescente. Cominci a chiederti se sia un problema tecnico, un bug del sistema, o se invece sia tutto perfettamente intenzionale, un modo per sfinire il cliente fino a fargli dire “Vabbè, lasciamo stare, tengo la sottoscrizione”.

L’unico modo per cancellare il rinnovo automatico è stato quello di chattare con un pinguino dell’assistenza clienti, uno di quegli operatori che probabilmente lavorano in un call center dall’altra parte del mondo e che devono seguire uno script rigidissimo che prevede almeno tre tentativi di convincerti a restare prima di arrendersi alla tua richiesta. Ho dovuto spiegare che no, non mi interessava l’offerta speciale. No, non volevo parlare con un responsabile. No, non avevo bisogno di tempo per pensarci. Volevo solo, semplicemente, banalmente, cancellare il rinnovo automatico.

Alla fine, dopo venti minuti di chat che sembravano ore, il pinguino si è arreso e ha annullato il rinnovo. Vittoria. Una vittoria di Pirro, forse, considerando il tempo e le energie spese, ma pur sempre una vittoria.

La morale di questa storia? Forse che dovremmo tutti tenere un registro delle nostre sottoscrizioni digitali. Forse che dovremmo leggere i termini di servizio prima di accettarli. Forse che il capitalismo digitale ha trovato modi sempre più sofisticati per tenerci legati a servizi di cui non abbiamo bisogno.

O forse, più semplicemente, che sono io ad essere un disastro ambulante nell’organizzazione delle mie finanze digitali. Propendo per questa seconda ipotesi.

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